La cucina orientale è sbarcata in occidente con i suoi sapori e i suoi profumi, conquistando un bel po’ di estimatori anche nel nostro paese. Dalla classica cinese alla giapponese, dalla dolce thailandese fino alla ricca indiana, i gusti orientali tipicamente dolci e speziati sono oggi conosciuti da molte persone, grazie soprattutto ai tanti ristoranti orientali che hanno popolato il territorio.
Ma c’è cucina orientale e cucina orientale o meglio, la cucina orientale vera non è quella proposta nei grandi locali che servono piatti a nastro. Stiamo infatti parlando di tradizioni culinarie millenarie, che nelle terre d’origine sono sopraffine e, soprattutto, molto salutari.
Ecco che la proposta locale può essere intesa come uno fast food, dove assaggiare i piatti tipici in una versione più veloce e quindi meno pregiata. Ma la domanda di oggi è questa: come possiamo unire cibo orientale e birra? E’ possibile?
La risposta è sì, eccome, perché ci sono delle birre che vengono prodotte nei paesi come la Cina e il Giappone che si sposano molto bene ai piatti della tradizione. Non solo, perché possiamo scoprire che altre birre, soprattutto europee, posso sposarsi alla cucina orientale e dare vita a un bel binomio di sapori.
Cucina orientale e birra: cominciamo dal sushi
Il sushi è un piatto giapponese a base di pece crudo, riso, alghe, verdura e frutta. Si tratta di piccole delicate porzioni che vengono solitamente servite con salsa di soia o di sesamo. Il sushi è una meraviglia della tradizione giapponese. L’abbinamento alcolico con il sushi, piatto sicuramente delicato nei sapori, può essere ricercato nelle lager giapponesi che sono molto leggere, bionde dal colore chiaro e dal gusto tenue, che accompagnano con garbo il sapore delicato del sushi.
E se vogliamo orientarci ad altre birre? Le lager italiane ed europee vanno benissimo, a patto che non superino i 4.7°- 5°, perché l’amaro dell’alcool è troppo persistente e andrebbe a coprire la delicatezza del sushi e ad ‘annientare’ i profumi di mare e di verdure tipici di questo piatto.
Per molti l’abbinamento cucina orientale e birra, in questo caso birra sushi, è da preferire al vino, una bevanda sensorialmente troppo ricca e quindi difficile da gustare con questo piatto.
E l’abbinamento cucina cinese e birra?
La cucina cinese è prevalentemente fritta,almeno quella che si trova in occidente, perché quella tradizionale è un inno al vapore. Ecco che, in base alle diverse cotture, è ideale preferire delle birre tenui, che non coprono il sapore delle carni e delle verdure e le esaltano, ma che al contempo ‘sgrassano’ il fritto rendendo felice l’esperienza di assaggio. Anche in questo caso, quindi, la lager è una scelta sicura, perché rinfresca senza alterare i sapori.
Un capitolo diverso meritano i cibi orientali piccanti, che possono essere abbinati ad una buona birra in modo che la piccantezza dei peperoncini o delle spezie impiegate venga esaltata al punto giusto. La light lager quindi la birra leggera, ben si sposa alla cucina orientale piccante, soprattutto a quella indiana e all’abbinamento con il curry. Le Ale indiane, americane e inglesi ben si legano con preparazioni di carni e di verdure, soprattutto di pollame come l’anatra che è molto proposta dalla cucina orientale. Le birre scure come le Stout vanno invece usate con parsimonia con la cucina orientale, perché hanno un sapore alquanto corposo. Alcuni puristi le consigliano però in abbinamento con i frutti di mare, soprattutto con il pesce crudo e con alcuni tipi di sushi a base di salmone, magari affumicato oppure addolcito con salse a base di peperoncini o soia.
Qui siamo nel fusion più completo, ma non è strano incontrare ricette della cucina orientale che impiegano proprio questa birra nella preparazione dei piatti, perché con la loro vena amara riescono ad esaltare il sapore del pesce, soprattutto del salmone e a definire il piatto dirigendolo un po’ verso i sapori occidentali.
Il rapporto cucina orientale e birra si può quindi chiudere con una deciso sì per questa bevanda, a patto che venga scelta una versione semplice e beverina, adatta con i crudi delicati così come con i fritti più ‘spinti’.
Non è un caso che proprio nei paesi dove questi piatti nascono le birre tipiche siano delle bionde molto delicate e a bassa gradazione alcolica. Certamente l’oriente non vanta la tradizione di birra che ha l’Europa ma, in ogni caso, la bevanda si lega sempre con la cucina, quindi meglio seguire l’origine per degli abbinamenti felici e gustosi fra cucina orientale e birra per non sbagliare un colpo e gustarsi un’esperienza completa con queste cucine così speciali.
La storia della birra ci regala delle sorprese molto interessanti, soprattutto se facciamo un bel viaggio nel tempo. Atterriamo quindi nel Medioevo, epoca storica per certi versi oscura, ma che ha visto sicuramente diffondersi e prosperare il consumo di birra, soprattutto nel nord Europa.
In questo periodo, come del resto accadeva nell’antica Mesopotamia, la preparazione della birra era affidata alle donne che, in questo modo, potevano provvedere sia al consumo interno della famiglia, che dare vita a un vero e proprio micro-commercio, abile nel garantire una costante entrata mensile. Queste entrate erano vitali nel caso di vedovanza, perché non dobbiamo dimenticarci che il Medioevo fu un’era di grandi battaglie, quindi le donne rimanevano vedove di frequente e solitamente erano molto giovani quando ciò accadeva.
Le leggi germaniche erano molto chiare in merito, perché decretavano che il materiale di ‘brassaggio’ era proprietà della donna e faceva parte della sua dote. In Gran Bretagna le donne che producevano la birra e la commercializzavano venivano chiamate ‘Ale Wives‘ e questo termine era usato per indicare le birraie e anche le ostesse.
Ma le donne del Medioevo erano già avanti con i tempi e, in molti casi, si organizzavano in common, piccole reti commerciali alle quali erano collegate delle micro fabbriche artigianali di birra. I common erano fuori dai circuiti commerciali più conosciuti, ma rappresentavano una solida realtà nella storia della birra e del commercio di questa bevanda dei paesi nordici nel Medioevo.
Storia della Birra: il centro era il Monastero
Come rivela anche la posizione della Birreria Vecia, legata alla produzione della birra da parte dei Monaci Girolimini, i monasteri erano i centri operativi della produzione della bevanda. Si trattava di oasi di pace , che non erano sfiorati da contesti bellicosi. In questi luoghi i monaci producevano la birra sfruttando le sorgenti di acqua fresca naturale e impiegavano le erbe aromatiche autoctone per generare bevande particolari e uniche da luogo a luogo. Ma se gli abati poteva essere considerati i ‘mastri birrai’, è interessante notare che erano le monache le persone addette alla produzione della birra.
Proprio così, perché le monache si occupavano della produzione e anche della distribuzione della bevanda ai viandanti, ai malati e alle persone. Alcuni centri di produzione divennero talmente floridi che riuscirono a garantire l’autosufficienza economica ai monasteri e agli attigui conventi. Nel corso del tempo anche i Monasteri iniziarono ad ‘esportare’ la birra fuori dalle loro mura e, più in la con gli anni, nacquero le corporazioni commerciali. E’ curioso notare che ella sola Amburgo nel 1376 erano 457 i birrai attivi nel territorio…
Una donna ha aggiunto per prima il luppolo
La storia della birra si tinge ancora una volta di rosa perché è all’interno dei monasteri che venne introdotta una grande novità nella preparazione della bevanda. Si tratta dell’impiego del luppolo, che cominciò ad essere impiegato come aromatizzante e come conservante. ‘Lupellare’ il mosto fu una pratica diffusa fin dal dodicesimo secolo e il processo venne inventato da una suora.
Si tratta di Suor Hildegard von Bingen, nata nel 1098 e scomparsa nel 1179 che viveva nel monastero di St. Rupertsberg in Germania. Suor Hildegard documentò con precisione nei suo scritti come il luppolo riuscisse a fermare il degrado della birra e permettesse di conservarla più a lungo. Dal monastero di St. Rupertsberg, l’impiego della pianta si diffuse nella Boemia e nell’Olanda, per sbarcare in Inghilterra verso al fine del sedicesimo secolo.
Ecco che la storia della birra rivela dei retroscena alquanto affascinanti per quanto riguarda il coinvolgimento femminile nella preparazione, nel raffinamento e anche nella distribuzione della bevanda. I documenti storici riportano, infatti, testimonianze di un lavoro prettamente femminile, che iniziava con la produzione e si sviluppava con un florido commercio, ben organizzato e definito in ogni dettaglio.
Affrontiamo oggi un argomento di grande attualità: il rapporto con il cibo in relazione alla crisi economica. Non possiamo nascondere la testa sottoterra come gli struzzi, perché la crisi ha sicuramente cambiato il nostro modo di pensare alla nutrizione, alcune volte in meglio, altre in peggio.
Già, proprio così, perché il minore reddito a disposizione ha indotto il consumatore a rivoluzionare il suo ‘ordine di priorità’.
Si tratta di una conseguenza normale, perché la crisi ha generato una forte caduta dei consumi, anche quelli alimentari, che solitamente reggono meglio, anzi restano stabili o addirittura aumentano.
Gli economisti chiamano questo fenomeno ‘anticiclico’, perché si tratta di un comportamento ben definito e che ha alla sua base la sopravvivenza del persone.
Ma cerchiamo di capire cosa è successo.
Quando c’è una situazione di benessere diffuso lo sviluppo dei consumi alimentari passa attraverso delle fasi precise.
Se i redditi crescono, cresce anche il consumo, un po’ come è successo negli anni del dopoguerra e del grande boom economico.
In questi periodi regnavano l’abbondanza e anche un’immagine pubblicitaria opulenta, che si rivolgeva a cibi costosi, come le carni, i salumi, le eccellenze, le primizie e così via.
Pensiamo alla bistecca.
Molti di noi si saranno sentiti dire che in tavola, da piccoli la bistecca non c’era, non esisteva. Esistevano il pollo di cortile, gli ossibuchi, le riserve di maiale nelle famiglie che se la passavano meglio.
Poi la bistecca è entrata a fare parte della dieta alimentare più classica e oggi è un piatto normalissimo della cucina familiare.
Poi sono nate le variazioni, quindi l’introduzione degli alimenti sani dal punto di vista nutritivo e i cibi etnici, in un incrocio di fattori e di eventi storici che ha mutato al dieta del paese.
Dagli ossibuchi siamo arrivati al kebab, in un processo naturale di sviluppo e di progressione civile.
Rapporto con il cibo: diamo i numeri
La crisi ha cambiato completamente il rapporto con il cibo degli italiani. Da un periodo di prosperità e di abbondanza si è passati a una fase di riserva.
Gli economisti affermano che la spesa alimentare impegna il 16% in media delle risorse economiche familiari.
Questa percentuale potrebbe stupire, soprattutto se la confrontiamo con quella degli anni ’50, quando la voce di spesa per gli alimenti era del 50%. Oggi incidono la casa, l’automobile, anche la scuola e i corsi.
La spesa al supermercato non è fra i primi costi da sostenere in termini di rilevanza, ma è quella fondamentale, perché se non mangiamo e non beviamo non possiamo sopravvivere.
Come ha cambiato i consumi la crisi? Gli studiosi affermano che, per la prima volta, si è verificata una situazione di anti-ciclicità.
In un primo momento, negli anni più preoccupanti, le persone si sono rivolte al risparmio assoluto e questo fatto ha indotto alla nascita i numerose catene di discount, che hanno fatto fortuna e hanno sicuramente contribuito a decretare le difficoltà di molti esercizi commerciali di piccole dimensioni.
Del resto, è importante affrontare la realtà a viso aperto.
Un piccolo esercizio può vendere un etto di prosciutto a 2 euro e ancora si trova ‘a filo’ nei guadagni.
La grande distribuzione, soprattutto se regolata dalle norme del discount, lo può vendere a meno della metà.
E’ quindi naturale che il consumatore con meno disponibilità di reddito si rivolga a queste realtà. Ma c’è molto altro da scoprire…
La crisi ha migliorato il rapporto con il cibo
Proprio così, la crisi ha saputo migliorare il rapporto con il cibo, basta analizzarlo in senso lato. Sicuramente vi sono stati anni bui di scorte alimentari a basso costo, di ricerche intense all’offerta più conveniente, ma al contempo è nata una fortissima ricerca della qualità e una tendenza a scegliere cibi buoni e salutari.
La popolazione, in altri termini, ha saputo maturare la convinzione che il cibo deve essere di qualità, magari scelto in quantità minori, ma buono. Si tratta di una tendenza anti-ciclica, ma che si è affermata soprattutto negli ultimi anni.
Non ci spiegheremmo, altrimenti, perché le aziende lanciano continuamente prodotti bio, senza olio di palma, senza additivi e chi più ne ha più ne metta.
La riposta va ricercata nell’attenzione dei consumatori che è alta, molto più alta rispetto ai periodi quando a queste cose ci si poteva pensare a cuor leggero.
La crisi ha quindi aperto le porte all’innovazione, complici le migliorie che sono state potare nel settore dell’allevamento e dell’agricoltura.
Produrre biologico o biodinamico, scegliere aziende che lavorano sull’organica e che usano prodotti locali è una tendenza che coinvolge molto persone e che decreta un rinnovato rapporto con il cibo: fondato sull’attenzione e sull’innovazione.
Si chiama cultura del ‘birrovagare’ e descrive un turismo speciale, legato alla birra e alla sua cultura. L’Italia vanta luoghi dove questa forma di viaggio può essere vissuta appieno, grazie alla nascita di tanti birrifici indipendenti, ma anche alla presenza di locali che hanno saputo valorizzare il territorio, le origini storico culturali e il contesto geografico di appartenenza.
L’interesse verso la birra è in continua ascesa e si concentra, in particolare, sulle produzioni artigianali che vengono sempre più apprezzare dal pubblico. Non dimentichiamo che l’Italia segue solo il Regno Unito, la Germania, la Francia e la Svizzera per quantità di micro birrifici, un bella posizione considerando che il Bel Paese è da sempre la patria del vino.
Secondo Gianriccardo Corbo, presidente di MoBi, Movimento birrario italiano, il cosiddetto patrimonio della birra annovera 674 siti produttivi, di cui 529 sono micro birrifici e 145 brew pup. Si tratta di un patrimonio ricco e che merita di essere conosciuto da più persone possibile, perché anche il nostro paese possa entrare appieno fare parte della cultura del birrovagare.
Birrovagare: dall’Italia all’Europa molto più di un trend
Le mode vanno e vengono ma la cultura del birrovagare è appena nata e promette di diventare una bella e durevole realtà. Termine che mescola felicemente la cultura della birra con il viaggio, il birrovagare permette di conciliare la scoperta di prodotti di eccellenza con le bellezze del territorio di riferimento. Si tratta, un po’ dell’equivalente dell’andare per cantine, fenomeno legato al slow food e alla cultura della lentezza, dell’assaporare i momenti di degustazione di piacere in contesti naturali, storici e culturali del nostro paese.
I dati dimostrano che l’Italia ha tanto da dare in questo verso, perché il 46% degli italiani ama la birra e la percentuale sale fino al 61% nella fascia di popolazione compresa fra i 24 e i 35 anni. Ecco che un bacino così ampio di appassionati sta eleggendo un nuovo modo di fare turismo, non solo mordi e fuggi ma esteso in termini di tempo.
Il birrovagare può, infatti, diventare protagonista della giornata di un fine settimana o concretizzarsi in un vero e proprio viaggio. Non stupisce comprendere che alcuni operatori turistici organizzano da qualche tempo dei veri e propri tour guidati, che hanno per protagonista assoluta la birra. Le mete definite? Sicuramente i templi della birra quindi la Germania, l’Austria e la Repubblica Ceca, ma anche il Bel Paese sta per dare il benvenuto a questa tipologia di viaggio, soprattutto con l’offerta riservata ai viaggiatori stranieri.
Più colti, più belli e più felici con la birra
Il birrovagare lega il piacere della scoperta con il gusto delle buone birre. Il viaggio è speciale e permette di accrescere non solo il proprio livello di cultura in merito alla birra, ma di scoprire combinazioni, prodotti e ricette dai grande interesse. La cultura della birra si lega, infatti, alla scoperta dei cereali antichi che sono patrimonio dell’Italia e che sono stati recentemente riscoperti per avviare produzioni di birra particolari. I grani antichi si legano ai prodotti aromatici che definiscono la bevanda e che possono appartenere a determinati luoghi del paese. Dai mieli alle erbe aromatiche, dalle spezie fino ai fiori, molti sono gli ingredienti chiave di birre originali, che permettono di capire la biodiversità e di accrescere la conoscenza in merito.
La birra diventa quindi la base e la protagonista di un viaggio che permette di scoprire luoghi alquanto speciali, fino ai contesti urbani che stanno affinando la loro presenza in tutto il paese. A dimostrarlo ci pensano i festival dedicati alla birra che vengono organizzati ogni anno da nord a sud della penisola, dal Birraio dell’Anno a Firenze fino all’Italia Beer Festival di Milano, dal Pils Pride di Como all‘Isola Birra di Cagliari. Se non è birrovagare questo…
Può un prodotto di largo consumo come la birra Corona schierarsi contro la presa di posizione del potere? La risposta è positiva e il fatto è accaduto alcune settimane fa con lo spot che ha celebrato le origini multietniche del brand, ribadendo la sua posizione in merito alla chiusura delle frontiere americane.
Al di là delle facili interpretazioni che possono nascere da questo video, ciò che merita di essere considerata è la presa di posizione e lo strumento impiegato per ribadirla.
La birra Corona Extra è una potenza internazionale, un brand che nasce nel 1925 in Messico e che si espande nel corso dei decenni in tutto il mondo, diventando il simbolo del bere ‘leggero’. Nel 1976 la birra Corona sbarca negli States e registra un successo immediato, diventando in pochi anni un’icona di stile.
I giudizi sulla qualità della birra Corona sono decisamente personali, perché ci sono persone che trovano questa bevenda troppo leggera, altri che invece la eleggono a compagna ideale nel corso delle serate estive e in occasione dei momenti conviviali. Oggi ci concentriamo sul potere della comunicazione e sul coraggio che il brand ha dimostrato di avere nella sua presa di posizione ‘anti frontiera.
Birra Corona: uno spot che rivendica le radici multietniche della vera ‘America’
Cuore pulsante dello spot della birra Corona è la frase ‘Perché l’America è sempre stata grande”. Si tratta di un gioco verbale che si contrappone al ‘Make America Great Again‘ che ha accompagnato la campagna elettorale presidenziale negli Stati Uniti. Il video si propone quindi di celebrare l’orgoglio di essere americani, ovvero di essere nativi di un continente dove i popoli si incontrano e si intrecciano da lungo tempo.
La volontà dichiarata è lessicale, ovvero lo spot chiede di restituire alla parola ‘America’ il significato corretto, ovvero non solo quello di Stati Uniti, ma di intero continente americano. Non a caso, lo spot mostra immagini ed evoca popoli che appartengono anche all’America del Nord con il Canada, all’America Centrale e all’America Latina.
E poi c’è la call to action o l’invito all’azione, che nello spot va ricercata nell’imperativo “Desfronterizate”. Si tratta di un invito ad abbandonare la logica delle frontiere. Un aspetto linguistico che forse al popolo italiano può sfuggire è che le parole vengono pronunciate da uno speaker con chiarissime influenze centroamericane.
Lo spot ricorda che sono 35 gli stati che appartengono al continente americano, ribadendo che non può un unico stato vantarsi di essere ‘l’America’, perché stiamo parlando di un continente molto più ampio e multietnico di quanto dichiarato.
Birra Corona: un cambio di rotta nella comunicazione
Come accennato, non è questa la sede per valutare la bontà e il pregio della birra Corona, ma è interessante riconoscere che il brand di birra ha saputo dimostrare coraggio nell’affermare dei concetti che, molto probabilmente, meritavano di essere sollevati nel post elezioni degli Stati Uniti.
Dichiarando che l’America ‘ è sempre stata grande’ e inneggiando al ‘desfronterizate’,il marchio di birra non si è semplicemente posto dalla parte dei latinos, come apparentemente può sembrare, ma di tutte le minoranze che possono essere oscurate da potenze economiche più grandi di loro. Inno alla libertà? Forse, ma soprattutto inno al rispetto, che alcuni popoli meritano di vedersi riconosciuto in nome di una storia millenaria.
Lo spot della birra Corona ha fatto molto scalpore non solo per il suo contenuto, ma anche perché i consumatori erano stati da sempre abituati a modelli di pubblicità che inneggiavano al sole, al divertimento e alla night life. Il cambio di rotta ha quindi dimostrato che il brand ha scelto di prendere posizione sui temi più attuali, dimenticando per un momento la sua veste più leggera per schierarsi apertamente verso decisioni politiche e sociali di impatto mondiale.